Tornare a casa
#44 | Intimità come forma di ecologia, biologia della meraviglia e alcune novità.
Per chi è nuovo in questo spazio e per chi lo segue dagli inizi, due annunci importanti. In questi mesi Making Life è cresciuta per avventurarsi fuori dalla pagina, con esperienze anche dal vivo. Come succede con certi giardini selvatici, dove a tempo debito da un giorno all’altro tutto fiorisce, ne è nato un sito che racconta di più (lo trovi qui). Questa newsletter perciò cambia nome in “Making Life Fieldnotes”, ovvero le note di campo di un viaggio più grande. Nel tipo di contenuti non cambierà nulla, se non che ora avremo più occasioni per fare cose assieme.
La prossima in programma parte il 26 settembre: un corso sull’arte della narrazione orale (storytelling) con la cantastorie Enedina Sanna. 4 incontri online per formare narratori e narratrici in grado di riportare la narrazione al centro delle pratiche educative, sociali, di relazione e dare radici alla creazione di storie originali. Io sarò tra i partecipanti, lei sarà la nostra guida. Più info a questo link.
Annunci finiti, ora partiamo!
La nostra relazione con la terra non può risanarsi se prima non ascoltiamo le sue storie - Robin Wall Kimmerer
A pochi passi dalla casa della mia infanzia, un fiume attraversa la campagna, largo e lento nel suo viaggio verso il mare. In un punto che non posso dire di preciso, dove l’acqua è più bassa e la vegetazione più fitta, vive un airone bianco.
L’ho notato anni fa mentre vagabondavo per i campi, con la testa piena e il cuore gonfio di non so che nostalgia. Vederlo procedere a zig zag, con quel suo andamento al tempo stesso elegante e goffo, mi aveva distolto dai pensieri come fa una madre premurosa quando distrae il figlio dal dolore di una sbucciatura, guarda lá, che meraviglia!
Ogni volta che torno da queste parti mi affretto al fiume. Nonostante la mia insistenza e la sua timidezza, mi immagino che il piacere di rivedersi sia reciproco, che dopo tutto questo tempo la nostra sia una relazione che possiamo definire familiare. Ritrovarlo nello stesso punto, lui o forse qualcun altro della sua specie, mi rassicura, come se fosse un segno che tutte le cose belle e importanti della mia vita sono ancora al loro posto, in salute. Allora non c'è nulla di cui io mi debba preoccupare.
Questo essere cosmico che chiamiamo “natura” è glorioso, multiforme, e ha molti nomi. Cerco un linguaggio per avvicinarli tutti, pronomi che non creino separazione. Priva delle parole giuste chiudo gli occhi e resto a lungo seduta sulla riva. Ascolto. Nel silenzio che si crea il mondo si fida e inizia a parlarmi. Noto un sasso poroso che prima non c’era, d’istinto allungo una mano e lo sfrego contro una roccia, si forma un solco rosso sangue, il colore cola. Pigmenti che raccontano di vita antica e forze elementari, esseri minerali condensati in geologie di stratificazioni, mi mostrano con orgoglio le loro proprietà.
Intanto, poco più a sud, in una cava di sabbia, grossi cingoli meccanici si mettono in movimento. Come fragorosi agenti atmosferici scatenati dall’uomo, ingoiano tonnellate di terra per trasformarla in materiale da costruzione. L’airone, che mi aveva tenuto d’occhio a debita distanza, si alza in volo con un verso rauco. Lo prendo come un messaggio che non so ancora decifrare.
Osservo l’ombra dell’uccello restare aderente alla superficie dell’acqua, mentre il suo corpo si libra sopra le cime delle querce più antiche. Lui sa essere al tempo stesso del cielo e della terra, un dono che gli permette di avere sia la visione d’insieme che la conoscenza degli anfratti più minuti, dove affondare il becco quando è ora di mangiare. Forse è questo il suo invito, ampliare il mio campo visivo e diventare abile nel mantenere entrambe le prospettive: dal micro della cava e del sasso, al macro della visuale sasso-fiume-paesaggio. Forse è nella relazione tra più dimensioni che possiamo trovare risposte sul nostro ruolo in questo ecosistema: fino a che punto è giusto prendere? E che cosa serve offrire in cambio, per mantenere intatta questa fragile armonia?
Ho passato l’estate a percorrere a piedi i miei luoghi del cuore per cercare di scoprire cose nuove, mapparne il carattere, la geografia, le cicatrici. Mentre immergo i piedi nell’acqua e le mani nel fango, mi chiedo se l’ansia per il futuro, il senso di smarrimento e la crisi ecologica che stiamo attraversando, abbiano un’origine comune in una dimenticanza. Aver dimenticato come si fa a stare in una relazione di vera intimità con la Terra.
Ricordare, in un contesto dove non abbiamo antenati da cui imparare il vero nome delle cose, le loro proprietà, la loro medicina, implica spesso reinventare. Tocca a noi dissodare, dissotterrare, e se serve, immaginare storie nuove.
Diventare intimi
Intimo ✑ dal latino intimus: il più interno; segreto; profondo; unito; strettamente connesso.






In un certo senso, siamo già tutti intimi con i luoghi che abitiamo. Ogni nostra singola cellula si nutre dell’aria che respiriamo, delle sostanze di cui è imbevuto il suolo dove cresce il cibo che mangiamo, della qualità dell’acqua a cui abbiamo accesso. Il modo in cui siamo strettamente connessi con tutte le cose che vivono attorno a noi non è visibile ad occhio nudo, eppure ci plasma. Quando diciamo “io sono di qui”, è il nostro corpo a reclamare quell’appartenenza, prima ancora della nostra biografia.
E’ difficile accorgercene muovendoci solo sulla superficie, attraversando i luoghi come se fossero uno sfondo, un materiale per i nostri desideri, invece che qualcosa di vivo e misterioso con cui entrare in relazione. Del resto il dizionario etimologico ci ricorda che l'origine dell’intimità sta nella profondità. Quando inizi a guardare le cose da questa prospettiva, ogni elemento della Terra - o almeno di quel pezzo di terra che chiami casa - entra nel tuo spazio visivo come un interlocutore degno di attenzione e non puoi fare a meno di interrogarti sulla sua salute, improvvisamente così indistinguibile dalla tua. Non succede forse lo stesso con le persone che amiamo?
Come sarebbe se ci muovessimo nel mondo come se tutto fosse vivo e potessimo estendere al falco, al fiume, agli alberi, al suolo la stessa forma di intimità? Forse ci sentiremmo meno soli. Sapremmo di appartenere a qualcosa. Avremmo più specchi in cui rifletterci e più maestri da cui imparare.
Quando entri in contatto con il mondo non umano in questo modo, inizi a sviluppare una relazione che trascende l’ecologia. L’istinto di prendertene cura non è più dettato da un senso di giustizia, di dovere o di urgenza. In fondo, non lo difendi neanche per le sette generazioni a venire. Lo fai perché non puoi più fare a meno della sua presenza, della sua salute, per essere pienamente te stesso. Hai instaurato con la natura una sorta di parentela, un legame che assomiglia all’amore.
Il fatto che accada o meno è frutto di una continua ricerca, diversa per ciascuno di noi. L'origine della spinta a cercare però sembra essere la stessa: la nostalgia. E’ possibile che il richiamo sia il desiderio del corpo di tornare a sentirsi parte di quell’altro corpo cosmico, immensamente più grande e insondabile, da cui siamo emersi tutti? La meraviglia che proviamo nei confronti della natura, non è forse il suo indicatore?
Biologia della meraviglia
Nell’indagare le ragioni che portano l’umanità ad essere così profondamente attratta dalla natura, al di là di ogni valutazione puramente utilitaristica, il biologo e filosofo tedesco Andreas Weber, nel suo libro d’esordio Biology of Wonder, sostiene:
Noi non viviamo il mondo principalmente con la mente, ma con i sensi e il corpo, e la conseguenza di questa connessione fisica è che percepiamo il mondo non come una reazione a catena causale, ma come un vasto campo di significato. Gli esseri umani pensano in simboli e metafore. Per sperimentare appieno questo lato del nostro essere e integrarlo nelle nostre personalità, dipendiamo dalla presenza della natura come specchio simbolico o repertorio che riflette o esprime la nostra vita interiore.
Facendosi promotore di quella che lui definisce un’ecologia poetica - ovvero “un'argomentazione scientifica che spiega perché la profonda meraviglia, il legame romantico e la sensazione di sentirsi a casa nella natura sono legittimi” - Weber approfondisce il ruolo essenziale che il mondo non umano gioca nel dare forma alla nostra umanità:
In tutta la nostra goffa tenerezza, noi esseri viventi siamo strumenti di una dimensione interiore che, quando vista da altri esseri, può essere compresa. Nella fioritura del fiore, la gioia dell'inizio è reale, e allo stesso tempo diventa una metafora per la mia vita individuale. Mi permette di comprendere me stesso, di vedere il mio stesso inizio, la mia stessa speranza, come una sfaccettatura dei principi generali del mondo vivente.
Quando le persone perdono punti di riferimento, che possono essere visitati e curati in un paesaggio reale, diventano anche moralmente disorientate. Se i sistemi di pensiero nativi hanno ragione riguardo alla nostra connessione concettuale con la natura, e alla cultura come interpretazione creativa delle inevitabili interconnessioni con l'ecologia, allora qualsiasi perdita della natura minaccia la società in quanto tale.
Dobbiamo accettare che se perdiamo anche uno solo dei fili di cui è composta la rete della vita, perdiamo una parte della nostra stessa libertà. Più altri esseri viventi scompaiono, più diventa difficile per noi raggiungere un'identità individuale che vada oltre il riferimento funzionale a noi stessi. Siamo minacciati da un pericolo inatteso: la perdita della possibilità di amare.
Arrivati a questo punto allora, che cosa possiamo fare? A quali conoscenze, saperi, strumenti possiamo far ricorso per comprendere meglio il mondo che ci circonda e il nostro posto in esso, così da orientare di conseguenza il nostro agire? Con l’autorevolezza che gli conferisce la sua carriera di scienziato, allevato dalla sensibilità di mentori come Francisco Varela, Weber suggerisce:
Il sentire è il modo più accurato di relazionarsi alla realtà. Potrebbe persino essere l'unico modo (se consideriamo l'obiettività come una finzione collettiva che maschera il sentimento). Il sentire è linguaggio comune di tutte le cellule e di tutti gli esseri, il linguaggio dei corpi e dei poeti. Solo le decisioni prese in questo linguaggio possono avere effetti nel mondo reale. E possono funzionare solo se il corpo le ritraduce nel gonfiarsi dei muscoli e nella tensione degli arti. Questa è la differenza decisiva tra la sfera degli organismi e il mondo delle macchine.
(Per questo) potremmo comprendere più facilmente come funzionano gli organismi attraverso l'arte piuttosto che attraverso le spiegazioni della scienza meccanica. La risposta di un organismo al mondo diventa equivalente a un'opera d'arte che esprime un significato.
L'arte, quindi, non è più ciò che distingue gli esseri umani dalla natura, ma piuttosto è la voce della vita pienamente in noi. Il suo messaggio è che la bellezza non ha una funzione. È piuttosto l'essenza della realtà.
Nel riferirsi alla nostra percezione della bellezza, Weber suggerisce che sia proprio questo l’indicatore più affidabile per riconoscere la salute di un ecosistema. Nonostante la potenza dei nostri strumenti tecnologici, il corpo umano, frutto di millenni di evoluzione, resta di gran lunga lo strumento più avanzato che abbiamo per percepire il benessere (o il malessere) del paesaggio in cui siamo immersi. Il senso di meraviglia, l’ondata inaspettata della gioia, la percezione inspiegabile del bello: queste sembrano essere delle guide affidabili da seguire mentre lavoriamo per rendere reciprocamente compatibili le nostre comunità con il mondo più che umano.
La natura riguarda la bellezza perché la bellezza è il nostro modo di sperimentare la vitalità come interiorità. Attraverso l'esperienza della bellezza siamo in grado di valutare il potenziale vitale di una situazione o di un ecosistema. Qualsiasi esperienza estetica della natura è quindi in qualche misura una valutazione etica.
La bruttezza, d'altra parte, ha un certo grado di tossicità. Il deserto funzionale dei paesaggi agricoli contemporanei, con le sue monoculture, ci lascia indifferenti, mentre il pendio mediterraneo con i suoi cespugli di rose e uccelli colorati ci scalda il cuore. La foresta pluviale e le barriere coralline ci affascinano, le infinite file di pini di una foresta industriale meno.
Probabilmente gli ecologi, confrontati con il compito di valutare la biodiversità di un ecosistema, potrebbero rinunciare a metodi di campionamento complicati e semplicemente fidarsi di ciò che vedono, odorano e sentono. Nel mondo degli esseri viventi un sistema bello è il sistema più diversificato, e un sistema diversificato è un sistema buono perché la vita si immagina come la più grande pienezza possibile.
Tuttavia, la bellezza dei sistemi naturali non appare mai nel trionfo radioso della vittoria. La vita è costruita sulla dialettica della nascita e della morte. È fragile fino al midollo. La sua bellezza, a cui siamo liberi di contribuire in ogni momento, è la speranza per una guarigione.
Forse uno dei cambiamenti più profondi che possiamo attuare, per noi stessi e per il pezzo di mondo che abitiamo, parte tutto sommato da un gesto semplice. Stare in ascolto, osservare, notare la bellezza attorno a noi, prendercene cura nel modo che più accende la nostra creatività. Non è già questo un modo per sentirci più vivi?
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