Ritorno alla mente selvaggia
#27 | “Presto ora, qui, ora, sempre…Una condizione di semplicità assoluta (che costa non meno di ogni cosa) e tutto sarà bene e ogni genere di cosa sarà bene" - T.S.Eliot
C’è stato un tempo in cui, per imparare il mondo, ci raccoglievamo attorno al fuoco. Cerchi concentrici di antenati che tramandavano storie di un legame profondo, esteso dall’inizio di tutto fino alle sette generazioni a venire, perchè la vita era sacra, il pianeta era casa e l’essere umano una specie custode.

Se chiudi gli occhi e stai in ascolto a un certo punto la puoi sentire, la nostalgia pulsante per quella capacità primitiva di conoscere la terra e il tuo posto in essa, in modo così diretto, sapiente, istintivo. Che cosa ci è capitato?
David Hilton, poeta e traduttore americano, in “Wild Mind, Wild Earth: our place in the sixth extintion” la chiama ferita. Una ferita profonda e inconsapevole che ci ha strappato dallo stato di fratellanza con le forze che guidano la vita.
Per i bambini di oggi quell’affinità è ancora presente: la sentono istintivamente e la sentono nelle storie che gli raccontiamo, storie piene di personaggi, animali accattivanti. Ma a differenza delle culture paleolitiche, la nostra cultura priva i bambini di quell'appartenenza, lasciandoci in età adulta privi dell'unione primordiale.
È una ferita così completa che non riusciamo più a vederla, perché definisce la natura stessa di ciò che riteniamo di essere: radicalmente diversi e qualitativamente più preziosi del resto del creato, centri di identità spirituale separati dal mondo che ci circonda.
Una frattura insidiosa, perchè frutto inatteso del rapporto circolare tra chi siamo e gli strumenti che usiamo, anche quelli apparentemente più innoqui, come ad esempio…questo mezzo, la scrittura.
Queste gigantesche trasformazioni nella struttura della coscienza e di ciò che significa essere umani non avvengono a causa di idee che cambiano e si sviluppano, ma a causa di cambiamenti materiali: cioè, il passaggio da cacciatore-raccoglitore ad agricoltore; il passaggio dal vagabondaggio al villaggio; il passaggio dalla tradizione orale a quella scritta: questo è un cambiamento tecnologico, un cambiamento materiale. Ed è questo che ha trasformato la coscienza.
I greci hanno preso questo cambiamento materiale e lo hanno mitizzato nell'anima. La mitologia cristiana facilita la struttura della distruzione ambientale, rafforzando l'antica filosofia greca, dividendo il Cosmo in due regioni ontologicamente distinte: il regno dello spirito (cielo e anima) e il regno materiale (terra e corpo). Si tratta di una cosmologia che concepisce l'uomo come uno spirito che vive sulla terra, come una sorta di alieno proveniente da un luogo spirituale lontano, senza alcun legame fondamentale con la terra materiale e quindi senza alcuna parentela con le diecimila cose che la abitano.
Dal punto di vista etico, ciò riduce la Terra a una mera base di risorse priva di valore intrinseco. Quindi, alla fine, c'è la formula: la sesta estinzione è già stata inserita nella struttura migliaia di anni fa. Ci sono voluti migliaia di anni per costruire le capacità attraverso le quali la relazione strumentale, di sfruttamento, con il paesaggio e la Terra e le sue diecimila cose è diventata così catastroficamente potente.
L’inversione di quella che Hinton definisce “la sesta estinzione di massa” è possibile se riusciamo a ricucire la separazione con questo mondo, riconoscendo che anche la nostra mente è selvaggia, come le sue infinite creazioni. La nostra mente non è qualcosa di trascendentale che ci rende superiori o speciali, ma è uno dei frutti della nostra relazione intima con la terra. Un’appartenza che non si impara razionalmente, ma si sente. Per questo l’immersione nella natura, la musica, la poesia, le storie sono così importanti: sono le forme dell’invisible a cui da sempre ci affidiamo per ritrovare la strada di casa. Coltivare noi stessi svuotando la mente è paradossalemente il modo per ritrovare l’unità.
La maggior parte dei libri sull'ambiente oggi parla di innovazioni tecnologiche pratiche o di cambiamenti sociali che devono avvenire. Io sostengo che questo non funzionerà. Non è così che si fa. È necessaria una trasformazione dei nostri presupposti sulla natura di ciò che siamo e di ciò che è il mondo. Altrimenti, questa relazione strumentale e di sfruttamento rimarrà. Ma se si parte dal presupposto che questa Terra, gli animali che la popolano - la loro realizzazione - è importante quanto la nostra, l'intera conversazione cambia radicalmente.
Prima dell'intenzione e della scelta, prima delle idee e della comprensione e di tutto ciò che pensiamo di sapere su noi stessi, amiamo il mondo che ci circonda, questo pianeta vivente. Lo desideriamo, ne abbiamo fame. Le nostre lingue hanno fame di assaggiarlo e di parlarlo. I nostri occhi di assorbirlo. Le nostre menti di contemplarlo. I nostri corpi di toccarlo.
Forse oggi stiamo ritrovando la strada verso questa dimora primordiale. Si è rivelata una strategia evolutiva di successo per decine di migliaia di anni nel paleolitico, prima di soccombere alla strategia di maggior successo del dualismo metafisico, quell'anima distaccata armata di un rapporto strumentale con la terra, la coscienza strappata alla sua appartenenza alla terra selvaggia.
Dalla polvere cosmica sono nate le stelle e i pianeti, dal pianeta Terra sono nate forme di vita sempre più complesse e da questa crescente complessità è nata la coscienza umana. Per quanto improbabile possa sembrare dal punto di vista occidentale, ognuno di noi è un'apertura di coscienza, un'apertura straordinaria nel tessuto opaco dell'esistenza, un luogo in cui il Cosmo è consapevole di se stesso, in cui si specchia in quella che si può solo definire una pratica di amore elementare.

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