Come abiteremo il mondo
#41 | L'arte come mezzo per immaginare una relazione nuova tra persone, ambiente e luoghi: storie, pensieri e progetti di Emanuele Montibeller, costruttore culturale.
La crisi climatica è anche una crisi culturale, e quindi dell'immaginazione - Amitav Ghosh
Quando nel 2008 il Presidente francese Nicolas Sarkozy lanciò Grand Paris, un concorso internazionale per trasformare l’agglomerato parigino in una metropoli globale sostenibile, l’architetto Stefano Boeri e il designer Andrea Branzi parteciparono con un progetto singolare. La proposta era di non creare nessuna nuova infrastruttura e di liberare nei parchi e nei viali parigini 50.000 vacche sacre e 30.000 scimmie. Ispirandosi alle metropoli indiane, l’idea era promuovere l’immaginario di una città che offrisse “ospitalità cosmica alla biodiversità”, obbligando a ripensare le modalità di coesistenza tra umani e il resto del mondo animale. Creature selvatiche libere di scorrazzare per gli Champs Elysées aumentano di fatto il livello di imprevedibilità, costringendo gli umani a rallentare e a lasciare andare la smania di controllo sugli spazi del quotidiano. Il progetto non ha vinto il concorso, ma di certo ha rotto uno schema, innescando conversazioni nuove.
Nel riflettere sul ruolo dell’arte, del design e dell’architettura nella società, il filosofo Emanuele Coccia aveva affermato: “questi tre saperi sono immensi archivi di animismo collettivo che ci abituano a rapportarci al mondo come se fosse popolato non da oggetti, ma da anime diverse dalla nostra. È per questo che il problema ecologico deve essere trasformato in un problema estetico.”
Qual è allora il ruolo della creatività e dell’arte nello sviluppo di una sensibilità ecologica diffusa? Come può la pratica artistica aiutarci a immaginare modi radicalmente nuovi, più vitali, di stare in relazione e di abitare il mondo? Che cosa significa avere successo in questo contesto e a che cosa bisogna fare attenzione? Ne ho parlato con Emanuele Montibeller, ideatore, co-fondatore ed ex direttore artistico di Arte Sella e oggi, oltre ad altri molteplici incarichi, curatore di OCA - Oasy Contemporary Art, lo spazio per l’arte contemporanea dell'Oasi Dynamo, una riserva naturale WWF di oltre 1000 ettari nell’appennino pistoiese.


Emanuele Montibeller è nato nel 1959 in un piccolo comune della Valsugana, in provincia di Trento. Nel 1986 ha ideato, insieme a un gruppo di amici, quella che sarebbe diventata la prima esperienza di arte ambientale in Italia, un’iniziativa capace di coniugare arte contemporanea e natura in modo inedito.
Oggi Arte Sella è un’impresa sociale visitata da centinaia di turisti ogni anno. Con un fatturato di circa 1 milione di euro, il progetto ha avuto una ricaduta dirompente sul territorio, trasformando la Val di Sella da luogo marginale a destinazione turistica riconosciuta in tutto il mondo. Come è stato possibile? Chiedo a Montibeller di aiutarmi a ricostruire la natura del progetto e le vicende internazionali che l’hanno facilitato, in un contesto locale all’inizio ostile. Ecco che cosa mi risponde:
La Val di Sella ha avuto un passato illustre, prima la grande guerra, poi De Gasperi. Nel dopoguerra le famiglie facevano le vacanze in montagna e avevano qui la seconda casa, si sono avvicendati ministri e funzionari che frequentavano questi posti, famiglie nobili, creando lavoro per la gente che prestava servizio nei pascoli e boschi. Alla fine degli anni settanta tutto questo viene meno e la valle diventa un luogo senza futuro. E’ proprio in questo momento che arriviamo noi, tutti appassionati d’arte e di cultura, e ci viene in mente di fare un’iniziativa di land art in un terreno privato. La prima volta è durata solo 3 giorni ed è stata vista come una follia, ma il potenziale mi era chiaro e abbiamo deciso di andare avanti lo stesso.
I primi anni abbiamo messo noi i soldi. Io facevo il commerciante di tessuti per l’impresa di famiglia e ho deciso di investire, insieme agli altri fondatori. Ho la prima nota spese di 900 mila lire per comprare il rastrello, il badile… non attrezzature artistiche, ma artigiane. A un certo punto mi sono chiesto: vivo per cambiare zeri in banca o me la gioco fino in fondo? Avevo 46 anni, ho venduto tutto e mi sono messo a capofitto sul progetto.
All’inizio abbiamo incontrato tanta resistenza. Ma poi si sono susseguiti una serie di fatti che hanno modificato la percezione delle persone e della politica nei confronti della questione ambientale. E questo ha cambiato tutto.
Nel 1985 c’è stato infatti il disastro della Val di Stava, uno dei peggiori disastri ambientali nella storia italiana, la primavera dell’anno dopo Chernobyl. Prima la questione ambientale era un tema per salotti intellettuali. Dopo, non solo in Trentino, ma in tutta Europa, è diventato evidente che è una questione globale e il territorio ha iniziato ad essere visto come un organismo con cui condividere la vita, da tutelare. Nello stesso anno muore Joseph Beuys, il primo in Europa a vedere l’arte come un mezzo per riconsiderare il rapporto tra esseri umani e natura, lui era tra quelli a cui ci siamo ispirati all’inizio.
Mettendo in luce come la traiettoria di un’idea non possa essere disgiunta dalle condizioni uniche del contesto nel quale ha preso forma e si è sviluppata - una verità spesso ignorata nella narrativa di chi vorrebbe “replicare” o “scalare” casi di successo - Montipeller aggiunge:
Arte Sella è di fatto la conseguenza di tutta una serie di fattori contingenti, compreso il periodo storico. Abbiamo avuto la fortuna di avere la disponibilità di un luogo a cui nessuno importava, gli abbiamo dato un valore anche economico e abbiamo creato una destinazione turistica, che oggi è una delle cose più difficili da fare. Però questo è stato frutto di un processo storico, economico, antropologico che si è manifestato nell’arco di 30 anni.
All’inizio le persone del paese mi insultavano. Eravamo un gruppo di amici che scambia idee col mondo, usando il territorio di tutti. E’ inevitabile che questo entri in conflitto con l’identità di un luogo. Prima l’identità di Borgo Valsugana coincideva con il grande pensatore, l’alpeggio e la montagna. Tu inizi a parlare un'altra lingua e diventi uno straniero all’interno della tua stessa comunità. Per noi la montagna è anche una presenza spirituale, rappresenta, per chi ci vive e la vive, un fatto fortemente identitario.
Cambiare l’immaginario del luogo e introdurre delle metodologie completamente diverse crea spaccature e titubanze, giustamente. Ricordo ancora una delle prime installazioni. Era un’opera fatta con un cumulo di letame dove l’artista aveva messo degli additivi che producevano suoni e colori. Ma per la gente che la guardava era un cumulo di letame, non la capiva.
Questo è stato l’ostacolo più grande all’inizio e la chiave è stata perseverare . Ed evitare al tempo stesso che il divario tra il progetto e la gente aumentasse. Dovevi fermarti, tornare indietro, spiegare e coinvolgere, finchè ciò che era sembrato una follia non è diventato qualcosa di normale.



Quando è possibile dire che un progetto come questo ha avuto realmente successo?
L’Arte Ambientale non è la semplice creazione di opere d'arte nel paesaggio naturale. E’ prima di tutto una forma di indagine che utilizza l'arte come mezzo per immaginare una relazione nuova tra persone, ambiente e luoghi, e stimolare sia la consapevolezza che l'azione. Arte Sella all’inizio non è nata come un progetto turistico, ma come un’operazione culturale. Solo dopo è diventato evidente il suo potenziale economico. Uno sviluppo che inevitabilmente crea tensioni e interrogativi che, se abbracciati fino in fondo, contengono anche il seme per evoluzioni ulteriori. Quali sono stati dunque i fattori che hanno reso Arte Sella un progetto che in molti hanno definito di successo?
I parchi d’arte non li abbiamo inventati noi, quello che abbiamo introdotto è stata la possibilità di avere opere non perenni. Molte delle installazioni presenti ad Arte Sella sono soggette all'erosione e alla trasformazione naturale nel corso del tempo, cambiano insieme ai materiali naturali di cui sono composte. C’è stata l’accettazione che il valore più importante da preservare non era più l’opera d’arte in sé, ma quello dei luoghi e quindi in qualche modo si è dato valore al tempo, non più all’opera. In un periodo storico in cui nasceva il mercato dell’arte, dove il valore dell’oggetto artistico è oggetto di scambio, fare un’operazione che va in direzione opposta è stato piuttosto dirompente.
Poi bisogna interrogarsi su come, in un contesto del genere, misuriamo il successo. Il numero di biglietti venduti o i contenuti? Ci devono essere tutte e due? Probabilmente si. Ma se sei un luogo vocato alla creatività e alla ricerca, indipendentemente dalla ricaduta in termini di pubblico, finirai per entrare in rotta di collisione con le spinte alla sostenibilità economica.
Io ho sempre cercato di anticipare i tempi, ci sono state opere che hanno funzionato e altre che sul momento non sono piaciute, ma che dopo 10 anni sono entrate nell’estetica quotidiana delle persone. Questo limite diventa insormontabile quando hai un’organizzazione che tende a misurarti in rapporto alla risposta immediata della comunità. Non è dalla comunità che può arrivare la spinta inedita per creare immaginari nuovi rispetto a ciò che sta succedendo nel mondo. L’unica cosa che il tuo territorio può comprendere di un'iniziativa come questa è la ricaduta economica. Quando Arte Sella è diventato un successo economico allora ha acceso l’interesse di tutti e tu ti trasformi da un folle a uno che ha creato una cosa straordinaria.
Poi il limite che si genera con questo tipo di successo, di cui mi faccio carico, è che una volta raggiunto il risultato fai fatica a rilanciare, uscire dalla zona di comfort. Così che un progetto che nasce innovativo diventa conservativo, perché deve difendere la sua immagine e vendere biglietti.



Che consiglio daresti a chi vuole partire con un progetto di questo tipo, soprattutto sulle cose da considerare per farlo con integrità?
Con la sensibilità di chi ha compreso che ogni azione che compiamo nel mondo è sempre un atto di co-creazione, con delle implicazioni che nel lungo periodo non sono mai prevedibili a priori nonostante le nostre migliori intenzioni, la risposta di Montibeller va controcorrente e - curiosamente in linea con quella di chi ho intervistato prima di lui in ambiti del tutto diversi - invita all’inazione. Come in quel detto Yoruba citato spesso dal filosofo nigeriano Bajo Akomolafe, the times are urgent let us slow down.
Forse sto diventando un fondamentalista, ma credo che oggi la cosa più innovativa, e più coerente, è spesso non fare. Bisogna assumersi il coraggio di dire “non si fa”. Qualche mese fa sono stato nell’isola dell’Asinara, dove non c’è nulla. Io la chiamo l’isola delle anime perchè c’erano ad esempio le carceri, i sanatori, percepisci l’energia del luogo. Ad un incontro ho parlato con alcuni amministratori e non me la sono sentita di dire: facciamo un parco d’arte. Facciamo piuttosto un luogo di incontri, con arti performative, momenti di comunità, ma non costruiamo nulla che modifichi la natura di questo luogo.
Più in generale il tema di cui mi sto interrogando ora in OCA - Oasy Contemporary Art, è quale metodologia può aiutarci a riconoscerci in un luogo che non è il nostro, in comunità che non sono le nostre, nell’ambito del più grande tema d’indagine di come abiteremo il mondo. Quale ruolo avrà l’utilizzo di un luogo in un mondo attraversato dalle grandi migrazioni di massa dovute ai cambiamenti climatici? Che impatto ha questa mescolanza nella nostra concezione di casa, di appartenenza, di identità?
Noi siamo abituati a costruire affinché una cosa rimanga, non perchè scompaia, molto presuntuosamente. Oggi di percorsi di arte in natura ne nascono tutti i giorni, come se cercassimo una rassicurazione che possiamo ancora avere un impatto positivo. Ma siamo dentro l’antropocene e dobbiamo affrontarlo con la consapevolezza che ci siamo dentro, come dice Bruno Latour è la nostra condizione. L’affronteremo come saremo capaci. Scompariremo? Pazienza! E’ il processo di auto-rigenerazione delle cose che conta, non la materia di per sé. Oggi sono spaventato quando sento dire nei territori “ora diamo a questo posto un valore artistico culturale”. Sono consapevole di aver creato dei mostri. Oggi tutti quelli che arrivano ad Arte Sella, come in tutti gli altri parchi che sono nati nel frattempo in Trentino, arrivano in macchina, inquinano come quelli che vanno al centro commerciale.
L’opera d’arte che serve oggi non è tanto l’oggetto quanto il processo creativo in sé, un processo che aiuti a immaginare nuovi mondi possibili. E se per casa intendiamo il mondo intero, capiamo bene come il tema ambientale non può riguardare solo l’ambiente in senso stretto. Diventa una questione culturale, antropologica e sociale. Per questo sto tentando di perseguire altre strade, dare altre motivazioni e altri contenuti.
Ci riuscirò? Non lo so.
Da arte ambientale ad arte relazionale
Nel 1981 l’intera comunità di Ulassai, in Sardegna, partecipò alla prima opera d’arte relazionale mai realizzata al mondo, ideata dall’artista Maria Lai. Il sindaco le aveva commissionato un monumento ai caduti in guerra, lei si rifiutò dicendo che serviva realizzare qualcosa per i vivi, non per i morti.
Prendendo spunto da un'antica leggenda del paese, invitò gli abitanti a legare tutte le porte delle case con 27 km di nastri di stoffa celeste e alla fine dell’ultimo di tre giorni di lavori, degli scalatori legarono i nastri al Monte Gedili, la montagna più alta che sovrasta l'abitato, per legare Ulassai alla sua montagna.
All’inizio i popolani non erano affatto d’accordo, preoccupati per il risvegliarsi di antichi rancori tra famiglie, tanto che ci vollero un anno e mezzo di trattative prima di trovare un compromesso: dove tra famiglie esisteva un legame d'amore, al nastro vennero legati dei pani tipici detti "pani pintau", mentre per le famiglie in conflitto il nastro indicava il confine del rispetto delle parti. Fu la prima volta in cui un artista co-creava con il pubblico e in cui i fruitori diventavano di fatto protagonisti di un’opera d'arte che non è in un museo, né in nessun oggetto, ma vive nel processo, nella creazione di una nuova possibilità di relazione.



Mi viene in mente questa storia mentre, in chiusura della nostra lunga chiacchierata, Emanuele Montibeller mi racconta i nuovi progetti che lo vedono impegnato in OCA (a cui si arriva rigorosamente a piedi, percorrendo circa 3 km attraverso un bosco) e gli ambiti di indagine che oggi più lo appassionano.
Ciò che più mi motiva oggi è trovare il modo di creare dei luoghi in cui nascano relazioni a partire da una metodologia diversa. Perché un artista dovrebbe essere solo colui che dice “questo è finito” e mette giù il pennello? Immagino opere d’arte co-create con un gruppo di persone che dialogano e che facendolo diventano parte dell’opera e la trasformano, diventandone corresponsabili. La fruizione di un oggetto che crea comunità, che crea relazioni, forse bisogna lavorare di più su questo aspetto. Se condivido la mia opera con gli altri cambia la mia visione, che a quel punto non è più solo mia ma diventa la nostra. Un passaggio dall’io al noi, questo serve, in un processo che diventa esso stesso opera d’arte.
Ad OCA l’idea è di creare un laboratorio culturale dove alle arti visive si aggiungano una molteplicità di altre discipline e di attori, che possano relazionarsi in modo trasversale: scienziati, filosofi, artisti, architetti, antropologi, poeti, scrittori, che nell’incontro di saperi diversi cercano risposte all'interrogativo: come abiteremo la casa mondo?
Devo tanto a tanti artisti, loro sono stati la mia formazione. Le persone sono libri, devi cogliere l’occasione quando li incontri non solo di sfogliarli ma di interagire con loro. Per me è molto importante partecipare al processo creativo, il curatore deve sporcarsi le mani, entrare nella relazione, condividere un percorso.
Creatività e spiritualità non sono religioni, ma ciò che ci appartiene naturalmente, per il fatto di essere vivi, parte di questo pianeta. L’arte può aiutare ad educare i nostri occhi, la nostra mente e le nostre anime a un diverso sguardo.


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